Pubblicato su Messina 7, il 4 maggio 2012.
“Il carcere è un male necessario”. Potrebbe essere lo spot di una campagna nazionale pro-legalità e pro-sensibilizzazione, una di quelle campagne che sovente passano attraverso le nostre radio e le nostre televisioni.
Invece, la frase rappresenta il coronamento di un pomeriggio trascorso nella Casa Circondariale di Messina, un pomeriggio tanto strano quanto degno di essere raccontato.
L’occasione di visitare il carcere, ma soprattutto di entrarvi ed uscirvi (!) da libera cittadina, mi è stata fornita da un progetto promosso dall’Istituto Minutoli, “La scuola va in carcere. Il carcere va a scuola”, coordinato dalla prof.ssa Pina Lupo.
Appuntamento ore 15.00 dinanzi al cancello, rigorosamente chiuso e super sorvegliato.
Con me, gli altri ragazzi dell’Istituto che, tra chiacchiere e sorrisi, si scambiano veloci battute. “Stai attento che non ti lasciano più uscire”, “E’ la volta buona che mi … attaccano”.
Dopo qualche momento di attesa, riusciamo ad entrare, passiamo tutti i controlli (metaldetector, registrazione, rilascio documento identità), depositiamo ogni oggetto all’ingresso e varchiamo la soglia.
E’ un attimo, un passo, e l’atmosfera cambia di colpo. L’aria, tutta l’aria, sparisce lasciando il posto al buio, al silenzio ed a quella sensazione di chiuso che non mi abbandonerà per l’intera giornata. “La Casa Circondariale è suddivisa in vari reparti: maschile, femminile, Nido, clinico-chirurgico, cappella, cucina”. Parla con sicurezza il comandante della Polizia Penitenziaria, Antonella Machì, una donna, ed io rimango affascinata da quella figura tanto vigile quanto autoritaria.
“Il reparto maschile, così come quello femminile - continua - è suddiviso in due circuiti: il primo, quello di bassa-media sicurezza, ed il secondo, quello di alta sicurezza. Per intenderci, l’alta sicurezza riguarda, nello specifico, i soggetti che hanno commesso reati d’associazione: mafiosa, ad esempio”.
I ragazzi ascoltano con attenzione, io inizio a provare un senso di claustrofobia pressante. Claustrofobia che, parola dopo parola, cresce fino a divenire un’esigenza di aria libera da respirare.
Ma il comandante continua. “Al di là di questo cancello – indica le grate di fronte – vi è il reparto maschile. Ogni cella è costituita da circa 12 mt quadri ed ospita 6 carcerati”.
Penso che la matematica non è un opinione per cui, conti alla mano, ogni carcerato ha a disposizione 2 mt quadrati di spazio. E stop.
“Come potete ben capire, la libertà è il diritto di cui viene privato chiunque entri qui dentro”. Adesso a parlare è Romina Taiani, vice-direttore della Casa Circondariale.
“Vi sono delle restrizioni, come le visite dei famigliari, le chiamate telefoniche, un certo totale di soldi da poter spendere mensilmente…”. “In che senso, soldi da poter spendere?”, mi sento di domandare, mentre cerco di trattenere il desiderio di uscire.
“Certo, ogni detenuto ha la possibilità di comprare, da una lista ben definita, degli extra, (chiamiamoli così). Ma ovviamente ognuno non può spendere più di un tot al mese. In tal modo viene insegnato e rispettato il principio di equità. Anche questo fa parte della rieducazione, si parte dalle basi”.
“Ed all’interno i detenuti possono anche lavorare?”, una voce dalle ultime file.
“Sì, loro vengono privati della libertà ma, per il resto, hanno diritto al lavoro, allo studio. Alcuni di loro riescono addirittura a laurearsi”.
Sono emozioni contrastanti quelle che si accavallano nella mia mente e nella mente degli altri ragazzi.
Scivoliamo tra i corridoi fino ad arrivare nel reparto clinico-chirurgico. Un rapido sguardo, e dalle ultime bande si sente esclamare: “Assurdo! E’ più pulito ed ordinato di tutti gli altri ospedali di Messina!”. In effetti, è tutto nuovissimo e perfettamente efficiente.
“Questa è l’unica sala operatoria da Napoli in giù. Vi sottolineo che non è una cosa comune possedere un reparto clinico-chirurgico all’interno di una Casa Circondariale. Qui il personale medico ha a disposizione tutto, si opera ogni lunedì e la lista d’attesa è sempre lunghissima”.
Proseguiamo senza sosta, vedo le facce degli studenti, al confine tra il terrore e l’incredulità.
Sara, 17 anni, si avvicina e mi sussurra: “Sapere che commettere un reato significa vivere così, mi fa venire la pelle d’oca”.
Qualche corridoio, ed inferriata, più in là, incontriamo Padre Salvatore Alessandrà, parroco storico della Casa Circondariale, uomo tanto gentile quanto saggio.
Il suo esordio riesce a strappare un sorriso a tutti i presenti. “Ero entrato qui solo per stare due mesi. Ma questo accadde 22 anni fa”.
Parla, testimonia, narra le sue esperienze all’interno di quelle celle, di quella parrocchia, di quelle santissime messe tenute dinnanzi a uomini che hanno commesso errori, e pagano per questo.
“Vi avranno detto che uno dei reparti presenti nel carcere è il Nido. Voglio raccontarvi qualcosa sulle madri che vivono lì, e sui loro bambini piccolissimi. Al momento qui è ospitata solo una detenuta con il suo piccolo”.
Il Nido, a livello nazionale e legislativo, rappresenta una delle realtà più tristi e crude delle Case Circondariali.
All’interno di questi reparti, vengono inserite le detenute madri insieme ai propri figli (fino al compimento del terzo anno di età). Il che significa che, a pagare per il reato commesso, non è solo l’artefice (la madre) ma anche il bambino, costretto a vivere da carcerato nei suoi primissimi momenti di infanzia.
Parla Padre Alessandrà, ed io mi ritrovo a pensare che tra tutti i nomi che potevano scegliere, quello di Nido mi sembra davvero il meno adatto.
“Il luogo ha la stessa struttura di quello maschile e di quello femminile, con celle e grate. La differenza consiste nel fatto che le celle rimangono aperte, e madri e figli possono stare in questo ambiente comune girando quasi liberamente. Certo, entro determinati confini. Il cancello del reparto, come sempre, identifica un limite invalicabile”.
Adesso alla mia claustrofobia si aggiunge una sensazione di freddo.
Entriamo nell’ultima sala, in cui un concerto dell’orchestra multietnica di Ritmo Live, diretto dalla prof.ssa Maria Grazia Armaleo, viene offerto a noi e ad alcuni detenuti appartenenti al circuito maschile di bassa-media sicurezza. L’atmosfera si alleggerisce, caricandosi di un entusiasmo misto, però, ad un’illusoria allegria. Poi, infine, applausi, saluti e ringraziamenti.
Esco da quella Casa Circondariale con un senso di oppressione ed, al tempo stesso, di sollievo: posso di nuovo respirare.
Eppure, nella mia mente, senza sosta, continuano a riecheggiare le ultime parole di Padre Alessandrà. “Sapete qual è la prima frase che i bambini del Nido imparano a pronunciare? Apri, apri”.
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